Disturbi dissociativi

I disturbi dissociativi sono caratterizzati da uno sconvolgimento e/o discontinuità nella normale integrazione di coscienza, memoria, identità, emozione, percezione, rappresentazione del corpo e comportamento. I sintomi dissociativi possono potenzialmente compromettere ogni area del funzionamento psicologico e sono vissuti come una intrusione nella consapevolezza e nel comportamento, con perdita di continuità nell’esperienza soggettiva (sintomi positivi) e/o impossibilità di accedere alle informazioni o controllare le funzioni mentali che normalmente sono facilmente suscettibili di accesso o controllo (sintomi negativi).

Comprendono:

  • il disturbo dissociativo di personalità;
  • l’amnesia dissociativa;
  • il disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione;
  • il disturbo dissociativo non specificato.

Si ipotizza che l’attaccamento disorganizzato costituisca l’esperienza primaria che determina la predisposizione alla dissociazione e quindi a modelli cognitivi multipli del sè, con una sensazione di minaccia costante al senso di continuità, unità ed identità della coscienza, che caratterizza in genere lo sviluppo della personalità.

Nel DSM-5 i disturbi dissociativi sono posti accanto ai disturbi da Trauma, il che riflette la stretta relazione tra queste classi diagnostiche. I disturbi dissociativi, infatti, sono frequentemente successivi a traumi e molti dei sintomi, tra l’imbarazzo e la confusione o il desiderio per nasconderli, sono influenzati dalla vicinanza al trauma.

Disturbo di Depersonalizzazione/Derealizzazione

 Che cos’è?

Le caratteristiche essenziali del disturbo depersonalizzazione/derealizzazione sono persistenti o ricorrenti episodi di depersonalizzazione, derealizzazione, o entrambi.

Il disturbo da Depersonalizzazione è definito come un’esperienza persistente o ricorrente di sentirsi distaccato o di sentirsi un osservatore esterno dei propri processi mentali o del proprio corpo (sentirsi come in un sogno). L’individuo può sentirsi distaccato da tutto il suo essere (“io sono nessuno”, “io non ho sé”); o può sentirsi staccato da aspetti di sé (ad esempio dai sentimenti “so di avere sentimenti, ma io non li sento”; dai pensieri “i miei pensieri non li sento come miei”; dal corpo o da parti di esso); o da sensazioni come il tatto, la fame, la sete, la libido. Può essere presente anche un ridotto senso di agency vissuta come una sensazione di robotica, come un automa privo di controllo dei propri movimenti. Il soggetto ha la sensazione di non essere nel pieno controllo delle proprie azioni, anche per quel che riguarda il parlare, e spesso l’esperienza di depersonalizzazione è accompagnata da considerevole ansia secondaria con il timore che queste esperienze possano significare che sono “matti” per cui hanno spesso difficoltà nel descrivere i sintomi.

Insieme alla depersonalizzazione può manifestarsi anche la Derealizzazione, ossia la sensazione che il mondo esterno sia strano o irreale. Il soggetto può percepire una alterazione strana e perturbante della misura o della forma degli oggetti, e le persone possono apparire non familiari o meccanizzate così da perdere il senso della realtà del mondo esterno. Può succedere di avere la sensazione che l’ambiente circostante sembri irreale: che il posto di lavoro non sia familiare o che gli amici o i parenti sembrino estranei. La Derealizzazione è spesso accompagnata da distorsioni visive soggettive come la sfocatura o il campo visivo ristretto o alterazione della distanza o delle dimensioni di oggetti (ad esempio macropsia o micropsia).

Le esperienze di depersonalizzazione o derealizzazione non si manifestano esclusivamente nel corso di un altro disturbo mentale, come schizofrenia, disturbo di panico, disturbo acuto da stress, oppure un altro disturbo dissociativo, e non sono dovute agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per es. abuso di droga o di un medicinale), oppure a una condizione medica generale (epilessia del lobo temporale).

Altre manifestazioni frequentemente associate comprendono: sintomi d’ansia, sintomi depressivi, ruminazione ossessiva, preoccupazioni somatiche, e alterazione del senso del tempo. Depersonalizzazione e derealizzazione si annoverano molto frequentemente tra i sintomi degli attacchi di panico.

Come si manifesta?

Gli individui con disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione possono avere difficoltà a descrivere i loro sintomi e possono pensare di essere “pazzi” o di “impazzire”. Altra esperienza comune è il timore di avere danni cerebrali irreversibili. Un sintomo comunemente associato è un alterato senso del tempo (sembra troppo veloce o troppo lento), nonché una difficoltà a ricordare in maniera vivida cose del passato. A livello somatico possono manifestarsi sintomi come: sensazione di avere la testa piena, formicolio, o vertigini. Sono comuni sintomi ansiosi e depressivi.

Gli individui possono presentare ruminazione o preoccupazione ossessiva (ad esempio, essere costantemente ossessionati da domande circa la loro esistenza, o dal controllare le loro percezioni).

L’età media di insorgenza del disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione è 16 anni, anche se può iniziare anche durante l’infanzia.

Gli episodi di depersonalizzazione/derealizzazione possono variare notevolmente in durata: da brevi (ore o giorni) a prolungati (settimane, mesi o anni).

 Come riconoscerlo?

Spesso l’esperienza di depersonalizzazione è accompagnata da attacchi di panico ed è seguita da sviluppo di comportamenti fobici di evitamento (agorafobia). A causa del temuto ripetersi della esperienza di depersonalizzazione (equiparata dai pazienti in genere a perdita di controllo e minaccia di impazzire) questi pazienti sviluppano ansia generalizzata e/o comportamenti di evitamento della solitudine e dei luoghi ove avevano sperimentato la depersonalizzazione. Spesso il paziente si presenta al clinico descrivendo il comportamento fobico e l’attacco di panico come i soli disturbi per cui chiede cura, e trascura del tutto di riferire sulla depersonalizzazione. In presenza di affermazioni, fatte da un paziente ansioso o spaventato, come “mi va via la testa”, “mi sento distaccato da me stesso”, “mi sento un automa”, “mi sembra di uscire da me stesso e di osservarmi dall’esterno”, il clinico si chiede se tale esperienza di minacciata perdita della continuità del senso di identità personale preceda o segua la crisi di ansia: non è raro accorgersi che la depersonalizzazione precede immediatamente e motiva l’allarme del paziente, piuttosto che essere la conseguenza di un attacco di panico. Essendo la depersonalizzazione in questi casi temporalmente antecedente anche se di pochi secondi all’ansia e al panico, la diagnosi di disturbo dissociativo da depersonalizzazione sembra più appropriata.

Cause

Vi è una chiara associazione tra il disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione e la presenza di traumi nell’infanzia, anche se non è così preminente come in altri disturbi dissociativi, come il disturbo dissociativo dell’identità. In particolare sono stati più frequentemente associati l’eccesso emozionale e la trascuratezza emotiva.

Altri fattori di stress possono includere: l’abuso fisico; l’essere stati testimoni di violenza domestica; essere cresciuti con un genitori affetto da malattia psichica; o la morte improvvisa o il suicidio di un familiare. I fattori più prossimi al manifestarsi del disturbo sono: grave stress (interpersonale, finanziario, occupazionale); depressione e ansia (in particolare attacchi di panico); uso di droghe illecite (allucinogeni, ketamine, MDMA).

 Conseguenze

I sintomi causano disagio clinicamente significativo o compromissione dell’area sociale, lavorativa, o di altri settori importanti del funzionamento e possono essere rilevati dall’individuo stesso o osservati da altre persone (APA, 2013).

Trattamento

Il trattamento raccomandato per la cura dei Disturbi Dissociativi è la psicoterapia, con lo scopo principale di ricondurre il paziente verso un migliore funzionamento integrato. Il terapeuta promuove l’idea che tutte le identità alternative rappresentino tentativi di adattamento per far fronte o padroneggiare le difficoltà incontrate dal paziente, e agisce aiutando le identità a conoscersi l’una con l’altra, accettandosi come parti legittime del sé e negoziando per risolvere i loro conflitti.

Oltre alla psicoterapia individuale, i pazienti possono beneficiare d’interventi specifici come la terapia dialettico-comportamentale DBT (Linehan, 1993a, 1993b), la desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari (EMDR; Shapiro, 2001), la psicoterapia sensomotoria (Ogden et al., 2006), le terapie di gruppo.

La terapia dialettico-comportamentale (DBT) di Marsha Linehan è un trattamento ad orientamento cognitivo-comportamentale integrato che prevede il potenziamento di quelle abilità in cui il paziente risulta carente, in particolare la regolazione delle sue intense emozioni negative, e sembra essere particolarmente indicato per le persone che presentano atti autolesivi e suicidari. Il fondamento del trattamento è aiutare i pazienti a ridurre al minimo i comportamenti che sono pericolosi per sé o per gli altri o che li rendono vulnerabili alle vittimizzazioni da parte di altri. Tali condotte includono: comportamenti suicidari e parasuicidari, abuso di sostanze e alcool, relazioni violente, disordini dell’alimentazione, violenza o aggressioni e comportamenti ad alto rischio.

La desensibilizzazione e il ricondizionamento dei movimenti oculari (Eye Movement Desensitization and reprocessing, EMDR) risulta molto utile nel modificare le distorsioni nella rappresentazione del sé, facilitando l’integrazione. L’EMDR permette al paziente di avvicinarsi al dolore in condizioni di sicurezza permettendo la temporanea disattivazione del sistema di attaccamento e la conseguente attivazione di un atteggiamento esplorativo.

La psicoterapia sensomotoria aiuta il paziente a recuperare la capacità di regolare quegli stati incontrollati del corpo che contribuiscono alla dissociazione.

In alcuni casi, per un tempo limitato, ad una terapia individuale si può affiancare la psicoterapia di gruppo al fine di aiutare il paziente a sviluppare competenze sul trauma, sulla dissociazione, assistere lo sviluppo di specifiche abilità (ad esempio, strategie di coping, abilità sociali, e la gestione dei sintomi), e permettere di capire che non è il solo ad avere a che fare con i sintomi dissociativi e le memorie traumatiche. I gruppi forniscono sostegno, la possibilità di focalizzarsi sullo sviluppo delle funzioni interpersonali e rinforzare gli obiettivi della terapia individuale. È fondamentale che questi gruppi siano a tempo limitato, ben strutturati e dichiaratamente focalizzati.

La farmacoterapia non rappresenta un trattamento di elezione in quanto non sono disponibili farmaci in grado di agire elettivamente sui sintomi dissociativi. Il ricorso alla terapia farmacologica è giustificato per ridurre la sintomatologia ansioso-depressiva, l’irritabilità, l’impulsività, l’insonnia, con il fine di raggiungere una stabilizzazione emotiva. Tra i più utilizzati: farmaci antidepressivi SSRI, più spesso utilizzati per trattare i sintomi depressivi e/o sintomi del disturbo post-traumatico da stress; gli ansiolitici utilizzati principalmente come approccio a breve termine per trattare l’ansia; i neurolettici o i farmaci antipsicotici, in particolare i nuovi antipsicotici atipici sono stati usati in dosi relativamente basse per trattare con successo l’iperattivazione, la disorganizzazione del pensiero, i sintomi intrusivi del PTSD, così come l’ansia cronica, l’insonnia e l’irritabilità.

Possono rendersi necessari ricoveri psichiatrici per aiutare i pazienti in periodi particolarmente difficili.

 Il trattamento cognitivo-comportamentale

La terapia cognitivo-comportamentale risulta il trattamento privilegiato per aiutare i pazienti ad esplorare e modificare il sistema di credenze disfunzionali basate sul trauma subito ed a padroneggiare le esperienze stressanti e i comportamenti impulsivi. Le tecniche cognitivo-comportamentali sono infatti particolarmente utili per il controllo di alcuni sintomi, quali: la gestione delle attivazioni ansiose e delle crisi di ira, la ristrutturazione dei pensieri negativi, il miglioramento della comunicazione interpersonale.

Obiettivo del trattamento è un funzionamento maggiormente integrato, attraverso il lavoro sui processi mentali dissociati. Nell’ottica della terapia cognitiva-evoluzionista, si concorda ormai nell’affermare che i disturbi correlati a traumi complessi, tra cui i disturbi dissociativi, sono trattati più appropriatamente in sequenze di fasi. La struttura più comune nel campo è costituita da tre fasi.

Nella prima fase la priorità è la sicurezza, la stabilizzazione ed il rafforzamento del paziente, in vista del lavoro di elaborazione del materiale traumatico e di gestione delle personalità problematiche. Gli obiettivi includono il mantenimento della sicurezza personale, il controllo dei sintomi, la modulazione degli affetti, la tolleranza dello stress, il miglioramento delle funzioni vitali basilari e lo sviluppo delle capacità relazionali. Si ricorre spesso alla psicoeducazione, consigliando al paziente letture specifiche, fornendo informazioni e spiegazioni con lo scopo di “normalizzare” la sua esperienza. La relazione terapeutica diventa il terreno di esperienze emozionali correttive del sistema di attaccamento e di esperienza di nuove forme collaborative e paritetiche di relazione interpersonale.

Nella seconda fase il paziente viene aiutato a elaborare gli episodi dolorosi del suo passato, e a sostenere il dolore per le perdite e le altre conseguenze negative del trauma. Il lavoro di questa fase è ricordare, tollerare, elaborare ed integrare gli intensi eventi passati pianificando strategie per mantenere il controllo sul materiale traumatico emergente. L’esplorazione e l’integrazione dei ricordi traumatici può essere definita come una forma di terapia di esposizione che permette al paziente di trasformare i ricordi traumatici al fine di integrare le personalità o ottenere una interazione tra esse. I processi della seconda fase permettono di comprendere che le esperienze traumatiche appartengono al passato, di capire il loro impatto sulla propria vita, di sviluppare una più completa e coerente storia personale e senso del sé. A tal fine vengono utilizzate: la ristrutturazione cognitiva delle esperienze traumatiche e il riconoscimento delle risposte di adattamento che il paziente ha avuto durante quelle esperienze con il fine di contrastare la colpa irrazionale e la vergogna.

Nella terza fase i pazienti iniziano a fare esperienza di un senso del sé stabile e solido e di nuove sensazioni su come relazionarsi con gli altri e con il mondo esterno. Acquistano un senso di coerenza della propria storia che risulta essere anche collegato con i problemi che devono affrontare nel presente, iniziano a distogliere l’attenzione dal loro passato traumatico, direzionando la propria energia sul vivere il presente e sviluppare prospettive future.